mercoledì 25 aprile 2012

Saper stare al mondo, o no.

Passo una notevole percentuale delle mie giornate a lambiccarmi il cervello. Non è un'attività che trovo sgradevole, nonostante la maggior parte dei progetti che metto a punto finiscano quasi immediatamente nel dimenticatoio e le questioni che analizzo siano per lo più inutili (ad esempio: il problema delle periferie-dormitorio, il suicidio di Guy Debord, l'ossessione dell'uscita dalla metafisica nella filosofia degli anni '50, il ruolo del sacro nella cultura reificante occidentale, nuovi metodi per mettere l'eye-liner in cinque minuti senza sbavature, ecc.). 
In sintesi, ho un talento particolarmente sviluppato nel lasciarmi scivolare gli istanti tra le dita come se fossero Smarties, così mi ritrovo a notte fonda seduta su una sedia che straborda di peso inutile e ipertrofizzato con un vago senso di colpa che cercare di eliminare non rappresenta più nemmeno un ideale regolativo o un sogno utopico. E' così e basta, ci metto una croce sopra su questo-è-quello-che-sono, e alla fine mi va bene così perché, come dicevo, non è un esercizio che mi risulta particolarmente sgradevole, anche se in realtà non è affatto un esercizio ma il suo esatto opposto (abbiamo già imparato che spesso "la presenza passa per l'assenza" e che "il diverso è uno slittamento del medesimo" e altre inutili boiate compensative e giustificatorie di questo tipo). 
Ma di tanto in tanto capita che questa pratica masturbatoria intellettuale venga bruscamente sospesa in modo totalmente involontario, come se ci fossero dei buchi o delle cicatrici sulla superficie epidermica delle mie fantasie paranoiche, e questo mi da molto, molto, moltissimo fastidio. Quasi capisco la frustrazione del coito interrotto.
A un certo punto delle particelle di quotidiano si frappongono fra me e i mie pensieri, e sto usando questo linguaggio perché è una sensazione estremamente fisica, porta con sé tutta l'inevitabilità della fisiologia. 
Sono ricordi cancerosi, emergono dal retro della coscienza così, quando gli pare, mi tormentano, mi ossessionano, sono longevi e nitidi, anche a distanza di anni, apparentemente insignificanti, la loro essenza è il distillato della mia incapacità a vivere. Sono lì per ricordarmelo: puoi pensare quello che vuoi, puoi crederti qualsiasi cosa, ma questo è ciò che sei, non puoi scappare. Mi compaiono davanti, come le pubblicità in mezzo ai film, in bianco e nero, con i contorni sfumati, i pixel che convergono inquietantemente verso il centro, verso quei volti di mostro, quelle manifestazioni di verità, come se al posto degli occhi del ricordo avessi due lenti fish-eye (e io detesto il fish-eye, mi fa veramente schifo).
Continua, per esempio, a comparire sul mio sbilenco palco mentale l'occasione in cui ho incontrato per la prima volta l'infermiera che assistette mio nonno poco prima della sua morte, un'infermiera veramente logorroica. Entrata dalla porta, con il suo taglio di capelli alla cazzo, da vera persona pratica, terra-terra, che non bada ai fronzoli, anzi li odia pure un pochetto, si presenta, le stringo la mano. Parla con i miei parenti, io sullo sfondo annuisco; parla un sacco, più che altro di sé. Rimane tutto il pomeriggio a parlare, la sua voce è ormai una nenia nella mia testa, mi sembra di conoscerla da sempre. Sì, ci vedo distintamente bambine insieme nei campi della Romania, inseguire un baluginante e incerto raggio di sole mentre giochiamo a nascondino. E lei fa il giro di saluti, saluta tutti, arriva davanti a me, in un gesto inconsulto ma carico di conseguenze per il mio sfortunato ego, mi inchino per salutarla con i due bacetti che tutti usiamo tutti i giorni, anche se non ci va e anche se ecc. ecc. E lei mi guarda, mi fissa nelle pupille, come se fossi completamente pazza, è proprio sconcerto quello che vedo per un secondo nel suo sguardo, e poi, peggio, mi asseconda, e poi, ancora peggio, si allontana perplessa. 
Sono ormai due anni che continuo a rivivere questa scena, automaticamente e contro la mia volontà, in un perpetuo autodafé della mia evidente inadeguatezza.

E ieri, intorno alle 6 p.m., ho combinato un altro pasticcio che mi perseguiterà da qui al mio eterno riposo.
Come tutti i lettori attentissimi che si aggirano su queste pagine sanno, io "lavoro" in biblioteca. Non una biblioteca qualunque, ma una biblioteca di Filosofia: questo vuol dire frequentata per lo più da casi umani imbarazzanti. I primi tempi era tutto molto divertente, mi imbattevo in libri interessantissimi, mi segnavo le frasi più assurde; lentamente ma inesorabilmente tutto ha assunto le tinte fosche dell'incubo. I libri hanno preso a diventare stupidi e fastidiosi numeri su diverse mensole ubicate in luoghi difficili da raggiungere, le persone che mi parlano sono diventate mere voci grottesche che si frappongono tra me e la fine del paragrafo. E spesso sono voci maleducate. Spesso non sono neanche voci, spesso sono solo lanci di oggetti e sguardi intimidatori, mentre io penso "Ma che cazzo vuoi?", e ogni tanto lo dico pure. 
Quando anche il mio collega più spensierato, quello che si divertiva di più osservando i miei sbilenchi sbuffi di rabbia, ha cominciato ad inquietarsi sussurrandomi "Ma lo sai che ti sentono?" e ha assunto un'inequivocabile espressione stralunata al mio "Ovvio" di rimando, ho capito che era giunto il tempo di darsi una regolata. Di smetterla di prendere tutto sul personale, di tornare a divertirsi, di cogliere il buono nelle persone, di lasciare sorrisi a chi sorrisi non sa dare forse perché la vita è stata troppo crudele, ecc. 
E come in tutte le cose che faccio, ci sono riuscita, al meglio, in modo convinto, senza incertezze.
Ultimamente, quando sono dietro al bancone, incontro spesso questa ragazza evidentemente molto timida, espressione seria, occhiali, libri in mano. Io la saluto, lei mi saluta. Un giorno l'ho incontrata in giro per la facoltà, e mi ha fatto ciao con la mano, e io ho pensato "Magari è una persona normale, ha addirittura sorriso, magari non mi saluta solo per educazione".
Mai errore di valutazione fu più profondo, stupido, imbarazzante, grottesco, sbagliato del mio.
Ieri erano circa le 6 p.m., la biblioteca era in chiusura, lei era l'ultima ad andarsene. Mi da la tessera, le restituisco il documento - sorridendo!- lei lo prende, mi dice "Ciao", io - ZA ZA ZAN- le chiedo "Come stai?". 
Comestai. Quanto ci vuole a pronunciarlo? Due secondi, su per giù? Ecco.
Temporale di emozioni, in due secondi.
Mentre pronuncio la prima sillaba mi congratulo con me stessa, penso a tutti i progressi che ho compiuto in fatto di relazioni sociali, a come sto superando le mie paure, a come sto diventando più equilibrata, a come sto aprendo il mio orizzonte al mondo, al dato, a come io stia diventando un'accogliente casa dell'essere, a come la persona che ho di fronte a me, questo Altro che tanto mi spaventava e ripugnava, è forse un potenziale Proprio, una leggera differenza dell'Identico che mi può portare allo scintillio del Vero nell'Ente, perché questo Altro che è di fronte a me, qui, ora, hic et nunc, non è come l'Altro-Inferno di poco fa che, mentre parlava al telefono, mi ha lanciato la tessera, aspettando che io facessi il mio lavoro, senza un "se", senza un "ma", un grazie e un arrivederci, quell'Inferno che aveva scatenato in me apparentemente insopprimibili istinti omicidi...
Ma già per la fine del Comestai capisco che sono un'inguaribile cogliona, che è proprio questo il mio problema, che io sono un'illusa, che non sono una nichilista, sono un'ottimista delusa, che non sono un leone, né una iena, ma che indosso questo costume da macellaio perché sono un'agnello indifeso. 
Varie emozioni attraversano il suo volto, neanche troppo fugacemente. 
In prima istanza: sconvolgimento. Balbetta, balbetta! Riesce a tirare fuori un "Perché?"
Penso, Ma in che senso "perché", ma che cazzo di risposta è, brutta deficiente ti spacco la faccia.
Ma riesco a regolarmi, faccio la faccia triste&imbarazzata e dico "Così...", sperando si capisca che boh, scusa, ho sbagliato, non mi sembrava di essere invadente, visto che ci salutiamo tutti i giorni ho pensato di chiederti come stavi, sono una cretina, lo so, è proprio questo il mio problema, ora e per sempre, il mio problema è che ho capito le categorie kantiane a 16 anni, e ancora me le ricordo, e trovo ridicole quelle persone che mi chiedono 7 volumi della collana Kant Schriften come se stessero facendo qualcosa di veramente grave e fondamentale per l'umanità, perché sticazzi di leggere Kant in tedesco,  Kant è sempre Kant, l'Inferno sono gli altri e voi non state cercando la cura per il cancro né progettando uno space-shuttle, state solo andando in giro con dei libri sotto le ascelle sperando che vi facciano da scudo quando qualcuno, qualche stronzo, qualche stronzo imbecille come me, si lascia scappare una parola di troppo da una stupida feritoia auto-inflitta nella propria armatura senza macchia. Vaffanculo.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Grande pezzo, pregno di sarcasmo intelligente e con un ritmo a dir poco perfetto.
Poco è lasciato al caso e tutto è incastrato incantevolmente, nella lettura si comprende che senza dubbio è stato a scriverlo una persona come quella che descrivi, le tue parole lo svelano e non si risparmiano.
Non c'è qualcuno che si difende o pente, perché anche il vaffanculo finale ha solo il sapore di uno sfogo e al massimo potrebbe essere rivolto alla puzza di sudore impregnata nei libri :)
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Simona

andrealovascio@gmail.com ha detto...

Parlando con un amico della mia 'incapacità di stare al mondo' mi sono reso conto di quanto simili siano le nostre esperienze.
Pur sentendomi anch'io un ottimista deluso riconosco che tuttavia un atteggiamento ottimista, quello di chi crede negli altri, non è altro che il comportamento di chi crede in se stesso, di chi quantomeno si rispetta e ha amor proprio. E' questo che ci porta a cercare rapporti, scambio e condivisione.
Se veramente pensassimo di non aver nulla da dare, faremmo come davvero in molti fanno, ci chiuderemmo in noi stessi.. accidenti del genere sono lo scotto da pagare per andare in cerca delle persone che ci hanno cambiato e ci cambieranno la vita, persone con cui i rapporti diventano intensissimi, che non fanno parte di quel genere di relazioni-scambio di convenienze, rapporti che sono degli del nome di "amicizia" .
Tutti questi problemi sono di quelli che arrivano quando già si è raggiunta una buona maturazione, poi se ne porranno degli altri e poi altri ancora, la vita ne è piena ma non voglio arrendermi e non sarò sopraffatto dalla rassegnazione.. Questa è la vita io domani ricomincio col sorriso, se poi sbatto i denti mi servirà da stimolo, la mia 'incapacità di stare al mondo' è solo l'effetto collaterale della mia capacità di credere.