mercoledì 23 maggio 2012

Due o tre cose che so di me.

E quindi io sto lì - lì dove? Tra quattro pareti tinte di scuro qualche anno fa, quando i colori chiari mi impedivano di dormire, serrande abbassate, portatile che ronza in attesa di un senso da trovare a abcdefghilmnopqrstuvz - sto lì e pianifico il mio futuro, che al momento potrei descrivere con tutti gli aggettivi esistenti nella ricchissima e semanticamente sfumatissima lingua italiana, tranne quelli inerenti alla radice lux, lucis: dovrei scrivere una tesi, diciamo entro un anno da qui, sulle 150 pagine, su cosa? Dio? Il problema del male nella letteratura occidentale? La Melanconia nell'iconografia medievale? L'ultimo film di Lars Von Trier? La tendenza reificante nell'arte contemporanea? Il principio del Nirvana? Quale problema mi interessa davvero? Voglio provare a chiedere un dottorato su George Bataille e le sacré? Mi interessa davvero, così tanto? O può interessare a qualcuno? O non è già stato detto tutto? O è possibile pensare un fuori l'ontologia-metafisica surrettiziamente ontificante e facente capo a una malcelata onto-teologia? Ma conta davvero? O voglio scrivere un romanzo? O voglio diventare economicamente indipendete e vendere l'anima al diavolo? Prendere per esempio 10.000 euro al mese per comunicare al mondo cosa è cool e cosa no? O prendere tutti quei soldi e nel frattempo scrivere un romanzo che non sia l'ennesima esplosione mancata ma la rivelazione degli ultimi 10 anni? Ho le capacità per farlo? Perché solo a questa condizione mi metterei davvero su un altare di pubblico ludibrio a spillarmi il sangue dalle vene, davanti a tutti, per quello che verrebbe recepito come puro intrattenimento. Ma ho davvero la possibilità di scegliere? Nel senso: la capacità, il talento, il genio, l'ambizione? Non voglio forse solo rimanermene sdraiata sul divano ad ascoltare la corrente che scorre nei muri? Non è forse quello il ronzio incessante dell'essere? Anche se io odio l'Essere, cosa altro può essere che ronza così indefessamente? Forse che cambiare il nome di quel quella-cosa-che-ronza lo renderebbe meno inquietante? Nel senso, se lo chiamassi ABCDEF mi farebbe meno schifo che chiamarlo "Essere"? Non è forse quella famosa Sindrome di Davide di cui mi si accusa? Tutte rivoluzioni che esplodono a vuoto, alla fine non cambia niente. Quindi io sto lì e penso, e dopo sto lì e penso, mi perdo tutto. Non più genialità, non più funzionalità, solo sregolatezza blandamente regolata che si incunea a vuoto in un abisso di inettitudine.
Sto lì e penso, e il mio cellulare smette a poco a poco di funzionare. Perché non ho chiuso la borsa, e ci è entrata l'acqua, ora questo insieme di circuiti elettrici che mi consente di comunicare con il resto del mondo piano piano mi abbandona. Penso, Vabbè, ma in realtà non sto prendendo seriamente atto della situazione, non valuto le gravi conseguenze gravide di oscurità che l'evento con se porta e lascio perdere mentre fumo una sigaretta aspettando l'autobus pieno di puzza di cadavere. Il tasto destro non funziona, non posso inviare messaggi, poco male.
E la mattina squilla, quel telefono di merda aggeggio diabolico partorito direttamente da Satana in persona, squilla silenziosamente, cioè vibra, perché odio le suonerie e quindi evito di usarle.
E' la responsabile dei turni della biblioteca, appena vedo il numero capisco: sono una cogliona di merda.
Dove sei?
A casa.
Ma vieni?
Appena posso, vengo.
Ma lo sapevi che avevi una sostituzione?
Sì, ma pensavo fosse Mercoledì.
Ma se ti hanno pure mandato un messaggio.
Ma non l'ho letto.
Ma Santi Numi, santissimi, ma fare una telefonata?
Perché poi dovrei prendermela con gli altri se io non so più dove ho la testa? Se penso a Herzog di Saul Bellow e alla Filosofia dell'Arte di Schelling fino al punto che non sono più in grado di vivere, è forse colpa mia?
E di chi?
Mia, lo so.
Il fatto è che ricordavo fosse Mercoledì perché, quando avevo preso impegno per quella sostituzione, oltre ad aver condotto la conversazione come se si trattasse di un banale "Oh, allora poi ce lo prendiamo quel caffè, eh" che tutti sappiamo non si prenderà mai, mentre dicevo "Non c'è problema!" - con l'entusiasmo proprio di chi non sa davvero cosa sta dicendo, né perché - avevo pensato, Allora sì, io arrivo, faccio due ore di turno, poi pausa di un'ora e altre due ore, ce la posso fare. E secondo il mio schema mentale questo vago ricordo nebuloso corrispondeva alla tabella di marcia del Mercoledì, io Martedì non lo avevo proprio considerato, per niente!
Tanto va sempre così: appena non consideri una cosa, quella subito tac ti frega. Pugnalate alla schiena, è così che va il mondo.
Allora poi arrivo con due ore di ritardo ma copro un'ora. Autodafé pubblico: "Mea culpa, mio Signore, ma tu perché mi hai abbandonato?"
Poi leggo Platone per un'ora; mi rimetto al lavoro, scambio tessere, dono sorrisi e ciao ciao.
Torno a casa, vorrei uscire ma non ce la faccio. Però poi vado a dormire alle due, anche se so che dovrò alzarmi relativamente presto l'indomani per via del turno eccetera.
Appena poso la testa sul cuscino mi rendo conto che, a causa del tasto rotto, non posso più cancellare messaggi, e la memoria è piena, conseguentemente non posso neanche ricerverne, quindi a breve mi ritroverò senza amici. Io posso sopportare tutto questo, ma quando mi rendo conto che anche l'altro tasto, l'unico che mi garantisse un minimo di funzionalità, ha deciso di andare a puttane, e quindi non posso impostare nemmeno la sveglia, la disperazione comincia a mordermi nel profondo, i tarli a impossessarsi della mia mente; tutto il mio bagaglio di psicologia freudiana non riesce a tenermi lontana da una possente galoppante insonnia. Mi alzo, scrivo un bigliettino a mia madre: "cellulare rotto, non posso impostare la sveglia. prima di andare via chiamami".
Mi addormento in preda a sogni esagitati e completamente insensati e pieni di vagine (boh?).
Alle 7.30 mia madre mi sveglia, e io penso: Cazzo vuoi brutta puttana. Mi alzo e le frego il cellulare, con un certo senso di trionfo: imposto la sveglia e mi rimetto a dormire.
Altre vagine, poi lo squillo del telefono mi sveglia e mia madre si incazza perché sono una tipa troppo furba, mi sembra evidente, eccheccazzo metti che mi serviva il cellulare a me? Ma se non lo sai neanche usare. E mi rimetto a dormire in quel modo esagitato che ormai è abitudine, levo la sveglia inconsapevolmente. Il mio sogno mi ricorda che devo andare in biblioteca, guardo l'orologio del cellulare: le 10:05, sono ancora in tempissimo! Sono fuori casa in mezz'ora, in tempissimo! Neanche l'ATAC potrà fermarmi!
Io posseggo un temperamento ottimista, è questa la verità: un'amara verità. E la presa di coscienza ha sempre la forma dello sberleffo. Questa volta me la comunica la maledetta palina elettronica, alla mia fermata, a quei cento metri che innocui ormai mi separerebbero dal mio turno lavorativo, dai miei 30 euro guadagnati con onestà e olio di gomito; essa mi dice: 12:09.
E allora capisco. Nonostante il mio talento nel perdermi le ore per strada, questa volta le cose sono andate in maniera impersonalmene e quindi più fatalmente perversa: MIA MADRE - lo capisco solo ora - NON HA AGGIORNATO L'OROLOGIO ALL'ORA SOLARE.
Corro, trafelata.
I miei colleghi mi guardano con aria imbarazzata. Una di loro mi dice che non mi devo preoccupare perché mi hanno sostituito, ma anche ieri hai fatto tardi ma non lo sapevi che dovevi prenderti le mie ore?
Il suo tono è neutro, neutro come il tono di una persona che non ti sta assolutamente giudicando può essere. Eppure non posso fare a meno di leggere in quella semplice paratassi uno sciorinamento delle mie colpe, e poi lo so che tutti giudichiamo tutti, e tu mi stai giudicando e io non ho alcun modo per espiare le mie colpe e ora è tutto il pomeriggio che leggo Saul Bellow cercando una giustificazione alla mia impossibilità nel compiere quelle azioni che per tutti gli altri non costituiscono il bencheminimoproblema, ma non la trovo...
Insomma, è andato tutto a puttane?
Già.
Tranquilla, sono tutti molto comprensivi.
Io no.



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