domenica 25 novembre 2012

Sera. Fuori dal locale più brutto e più amato di Roma, birra e chiacchiere. 
Farsi coraggio, entrare e scoprire che non c'è bisogno di nuotare e fendere la folla per arrivare in prima fila, perché dalla mia posizione laterale a circa metà strada tra il palco e il bagno ho una visuale quasi perfetta: in questa città sono tutti così bassi, che fortuna. Il mio cervello si sta comportando meglio del solito, e nonostante sia disgustata da quasi tutte le persone che mi circondano, riesco a godermi i 5 centimetri di vuoto che mi isolano da ogni lato dal contatto con oggetti estranei. In certe situazioni 5 centimetri possono fare veramente la differenza, e questa cintura d'aria mi consente di concentrarmi sulla musica, sulle luci, su dove sono e cosa sto facendo e a cosa sto pensando e va tutto bene.
C'è un gruppetto davanti a me: due coppie e credo un quinto incomodo. Le ragazze sono sedute su un divanetto mentre i ragazzi tengono il tempo e cercano di coinvolgerle segnando con la testa e con le dita i colpi di batteria. Le tipe non sembrano molto impressionate. Poi una si alza, si mette davanti al tipo,  appoggia all'indietro la sua testa sulle spalle di lui, che arretra, si gratta un braccio dietro la schiena e nel farlo gratta anche un po' la mia pancia. Che palle, penso. La testa della ragazza, da quella strana posizione, sembra un po' la testa di un animale e un po' il profilo del monte Soratte e mi fa uno schifo. Poi lui si gira e le infila la lingua in bocca e mi ricorda il mio gatto quando beve. Poi lei si alza, si risiede sul divano e lui si gratta di nuovo il braccio e mi gratta di nuovo la pancia, allora io non ce la faccio più e prima che possa mettergli le mani al collo e stringere forte sfodero il mio miglior sorriso e la mia voce più gentile e con estrema educazione gli chiedo di spostarsi un pochino più avanti perché tanto lo spazio per farlo c'è. Allora lui si sposta in avanti restituendomi i miei vitali 5 centimetri di salvezza che mi aveva sottratto in un momento di entusiasmo. E io penso che sono veramente una rompicoglioni e che non mi sto concentrando sul motivo per cui sono qui (lì) in quel preciso momento allora vaffanculo mi lascio trasportare un po' dal modo in cui la voce sognante e filtrata del cantante si mescola con i suoni freddi e digitali della Roland, appena percettibile sotto il muro di chitarre. 
Adesso che la mia interiorità, o quel che è, si è nuovamente pacificata riesco a percepirlo. E ricordo: quell'odore di thè bianco leggermente muschiato che avevo imparato a riconoscere come casa amicizia sicurezza tanto tempo fa. Un odore leggero ma persistente, veramente inconfondibile. Non lo sento da anni, ormai, e le parole del cantante mi suggestionano e mi ricordo di aver ricordato quel profumo alcune volte in momenti molto particolari - momenti di assenza e solitudine - e aver pensato: Mioddio, mi starò mica innamorando? 
E se lui fosse qui? Potrei parlarci, sistemare alcune cose, chiarirne altre. Potrei salvare un milite ignoto del mio passato dall'anonimato, perché in fondo ciò che conta è proprio questo: non perdersi niente, far sì che ognuno lasci una traccia, insegni qualcosa. Non più odio e rancore, ma serenità, pace con me stessa, remissione degli antichi peccati. Camminare su un percorso di luce. 
Nel frattempo il quinto incomodo se n'è andato, non riusciva a intavolare uno straccio di conversazione con le due copiette, una sul divanetto a limonare, l'altra divisa tra una metà seduta annoiata e svaccata, l'altra sudata, saltellante e decisamente entusiasta. Attraverso la luce dei riflettori e i flash degli Iphone riesco a scorgere le goccioline di sudore sulla sua fronte, mentre agita ritmicamente la testa a destra e poi a sinistra, muove le gambe, fa su e giù. Ed effettivamente fa davvero molto caldo, e mi chiedo per quale cazzo di motivo qualcuno andrebbe ad un concerto per chiacchierare o stare su un divano, o addirittura per quale recondita ragione un qualche organizzatore potrebbe ritenere una buona idea mettere dei divani lungo la parete di una stanza da concerto - probabilmente per lo stesso motivo per cui tutte le persone che esistono al mondo respirano con il preciso intento di volere, violare, pretendere, depredare, strappare, bruciare, scuoiare, divorare, ingurgitare, digerire, vomitare, contaminare, smembrare e disperdere, così, tanto per, perché non abbiamo un cazzo di meglio da fare e niente per cui morire e perché alla fine è bello e ci va.
L'odore di thè bianco muschiato e idee sublimi e buoni propositi e ricordi confortevoli e bei vecchi tempi passati per non tornare mai più si è gradualmente subissato sotto una puzza di ascelle e sudore e merda umana micidiale e allora mi chiedo, mentre inizia la mia canzone preferita del gruppo (che tra l'altro live è molto ma molto più bella che su disco), per quale motivo dovrei voler far pace con una persona così spregevole, così meschina, così moralmente abietta e intellettualmente insufficiente e così incapace di stare al mondo da non essere nemmeno in grado di investire, giustamente, in un vero profumo piuttosto che comprare una scadente colonia da supermercato da quattro soldi? E no, non vorrei che fosse qui. Non vorrei che ci fosse mai stato, a dirla tutta, non credo di aver imparato proprio niente. Ricordo ogni spregevole sintomo di quanto fossi in errore, ogni segno che non ho colto, ogni mancanza su cui ho sorvolato. E no, non ci sono bei vecchi tempi in onore di cui brindare nostalgicamente e dire "alla fin fine siamo stati bene". I bei vecchi tempi sono qui e adesso e il mio rancore è l'unica cosa sublime, in questa stanza, è freddo e digitale e riposa sui tasti bianchi di una vecchia Roland.

domenica 15 luglio 2012

Cose che poi ci pensi

Allora in questi giorni a Roma fa davvero molto caldo, ma per fortuna tira molto vento e se riesci ad aprire le finestre della casa in maniera strategica puoi metterti in mezzo alla corrente e non soffrire tanto.
Io ci vivo in mezzo alla corrente, nel senso che ho messo un tavolino e una sedia proprio nella traiettoria della corrente da me così creata e così studio lì.
L'unico problema è che, dovendo tenere le finestre aperte, non mi perdo neanche un rumore/conversazione/musica proveniente dall'ambiente esterno.
Le più grandi gioie/non-gioie me le regalano le vecchiette, parlano come nei film in bianco e nero neorealisti. Ancora, già. In realtà io adoro le vecchiette, non tutte, ma alcune che incontro alle fermate degli autobus sono davvero fantastiche e mi riempiono di complimenti e alla fine mi dicono che sono tanto carina però se prendessi anche un po' di sole non è che mi farebbe male. Io gli sorrido.
Insomma, dicevo che tutti i rumori entrano in casa e io sto lì che cerco di non farmi distrarre mentre leggo libri pallosissimi da così tante ore che ormai mi fanno male gli occhi.
E alle 4 del pomeriggio, puntuale come un orologio svizzero, arriva lui: Il Trombetta.
Trombetta è comparso una domenica di fine maggio, molto assolata, le note jazz si sono librate nell'aria come un simpatico diversivo, mentre al semaforo si muoveva impacciato con la faccia cotta dal sole chiedendo un po' di spicci.
Poi il sole è tramontato tingendo il cielo di rosa e c'erano ancora queste note jazz che si mischiavano col colore e non saprei descriverlo meglio ma era davvero bello. Bello in un senso melanconico, che secondo me è il bello più bello di tutti.
Penso non fossi l'unica a pensarlo. Vedevo i sorrisi delle persone in strada.
Ma poi Trombetta ha esagerato, ha cominciato a farsi vedere sempre più spesso, ha stropicciato il suo repertorio con strani e svogliati mescolamenti di "Tanti auguri a te" e cori da stadio. Singolare, certo. Ma anche una gran rottura di cazzo.
Ieri stavo al tavolino cercando di leggere, di non pensare a quanto avrei voluto essere da qualche altra parte o non esistere, per dire, e Trombetta inizia a fischiare nel suo strumento arrugginito.
Penso "Cazzo no" e brutti pensieri mi invadono. Cerco di pensare a cosa potrei fare per farlo smettere.
Poi sento urla in strada, una discussione.
Trombetta non suona più.
All'improvviso mi sento un po' triste - ma non era quello che volevo?

giovedì 21 giugno 2012

Recinzioni: The Killing

Dunque, se ve lo state chiedendo, anche se non vedo perché dovreste, questa non è una rubrica fissa né una cosa che mi piace particolarmente fare: ogni volta che leggo una recensione noto quel tono supponente dello sputasentenze che mi manda in bestia e non capisco se sono io il problema o se effettivamente tutti quelli che ritengono di avere qualcosa di rilevante da dire debbano necessariamente usare quel tono come se stessero spargendo chissà quali perle di saggezza. Seriamente, non fatelo. Chi cazzo ve l'ha chiesto? Ogni volta che state per scrivere una puttanata, cercate di pensare a me, sulle vostre spalle, con gli occhi sbarrati, che gracchio "Ma chi cazzo ve l'ha chiesto? Ma te l'ha chiesta qualcuno la tua stupida opinione?" e poi fate come vi pare, ma per favore, cercate di rispondere onestamente, fatelo per voi stessi...vi prego.
Quindi adesso mi è venuta voglia di scrivere la mia su The Killing, che è un telefilm prodotto dalla AMC e tutte le altre cose tecniche cercatevele su wikipedia, perché, nonostante io detesti le recensioni, ne leggo anche un sacco e su questo prodotto in particolare ne ho lette un sacco di negativissime. Non mi spiego il motivo, penso siano tutti dei deficienti e forse non dovrei abbassarmi al loro livello, ma le regole della convivenza civile mi hanno insegnato mio malgrado che bisogna argomentare le proprie opinioni, e siccome sono chiusa in casa da svariati giorni perché non ho una macchina e gli unici passaggi che potrei elemosinare implicano in ritorno favori sessuali che non mi sento di dare, credo proprio mi dedicherò a questo, stasera. E poi mi ubriacherò da sola e andrò a dormire triste. Mi sembra un ottimo programma.
Allora, la prima puntata di The Killing fu un cazzo di fulmine a ciel sereno.
Seriamente, erano anni che non vedevo qualcosa di scritto e prodotto per la televisione di così elevata qualità: tutto perfetto, dalla regia ai dialoghi - io ho una personale ossessione per i dialoghi, nel senso che se i dialoghi sono artificiosi o raffazzonati proprio non ce la faccio - alla colonna sonora, tutto compatto, tutto appuntito, un pugno nello stomaco. In una perfetta ring composition si può dire lo stesso dell'episodio conclusivo. In mezzo: chiaramente alti e bassi.
Una sceneggiatura non perfetta: la trama in alcuni punti sbrodola, credo la colpa sia per il tentativo (mal riuscito) di raccontare in ogni puntata una giornata di investigazione, senza interruzioni o salti temporali, e ciò che difficilmente regge in questa rigida cornice temporale è tutto il filone "politico-cospiratorio", ed è anche ciò che difficilmente appassiona, vuoi per il personaggio principale di quella dimensione, che è il candidato alla corsa elettorale Darren Richmond, il quale per tutti i primi 12 episodi poteva molto plausibilmente essere l'assassino, vuoi perché insomma anche sticazzi del nuovo sindaco di Seattle. E' soprattutto per questo che, almeno parzialmente, la "risoluzione finale" dell'intrigo poteva essere chiaramente intuibile già dall'inizio: perché cercare l'attenzione dello spettatore sui movimenti di questi burattini del potere quando ciò che interessa di più lo stesso deus ex machina è tutt'altro? Per esempio: cosa accade a chi rimane intorno a quel buco nero che la morte inspiegabile e violenta di un'adolescente può causare. E su questo lo schermo non mente mai: non c'è un solo istante che non comunichi qualcosa di profondo e oscuro, anche il personaggio più insignificante è trattato con una multidimensionalità pungente, gli sguardi ambigui non mentono, i non-detti dei dialoghi si lasciano tracciare con veemenza mentre il costante basso sordo continuo della pioggia accompagna disperazioni, rimpianti e decisioni sbagliate. La più grande debolezza di cui è accusato questo crime è proprio la sua lentezza, la diluizione della trama, che a me appare come il suo più grande punto di forza, la sua vera innovazione, così tanto sottile psicologismo nei telefilm non si vede, mai, neanche in quelli fatti davvero bene: tutto serve a qualcosa, a far sbocciare qualcosa, o a uccidere qualcosa, nulla è lasciato al caso, nulla è superfluo o ruffiano - i due detective, che durante l'indagine sviluppano una profonda alchimia, per esempio, non scopano mai (e per questo ti ringrazio Veena Sud, veramente ti ringrazio per aver avuto il coraggio di non inserire una cosa così scontata e triviale. Però ti ringrazierei ancora di più se tu potessi per esempio, in futuro, produrre anche un film porno sui due detective, perché se ci pensi il loro incontro potrebbe essere decisamente foriero di sviluppi "interessanti", poi io la butto lì, eh, insomma...).
E' proprio nel fallimento degli intrighi che questa scrittura vince: ci aspettavamo un segreto pruriginoso da svelare, ma c'è solo morte e disperazione e tristezza e malinconia e suicidio e i sogni distrutti di una ragazza che voleva scoprire il mondo e invece annega in un lago dentro un bagagliaio per colpa dell'inettitudine, della stupidità e della corruzione. Non c'è niente di grande, niente di sacro, niente di oscuro, ma la banale sconfitta degli sconfitti: alla fine è tutto un problema di tempismo, proprio come nella vita vera. Siamo troppo spesso nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed è molto più facile morire per incidente, per errore, così come se niente fosse, che morire per averlo meritato. Per me queste 26 ore di narrazione hanno vinto perdendo e deludendo, e adesso la smetto perché è veramente troppo difficile cercare di spiegare quello che penso di qualcosa senza poter mettere tutti i pezzetti precisi di cui vorrei parlare perché sono davvero troppi e inoltre non voglio rovinare la sorpresa a nessuno in caso qualcuno se lo volesse vedere, però che palle.






giovedì 7 giugno 2012

Sorrisi e altre cose brutte.

Oggi, dopo aver vanamente rincorso libri-fantasma alla Biblioteca Nazionale, aver lavorato, aver studiato, mi sono finalmente afflosciata su un palo rosso all'interno di un anonimo bus delle 7 p.m. L'ho fatto con la grazia che può essere rimasta dopo una giornata di dodici ore consapevolmente inutile, quindi poca. La signora seduta di fronte a me si è girata, aveva gli occhi color ghiaccio, e mi ha sorriso. E io le ho sorriso indietro. Saranno stati cinque secondi scarsi, ma così lunghi. E poi l'acutezza delle lenti a contatto, a cui non sono ancora abituata, mi ha fatto mettere a fuoco una specie di verruca sulla sua mano. Ho provato disgusto: era bianco-giallastra, rialzata, come una dorsale appenninica si sollevava prepotente tra i bordi frastagliati, grigia. Intorno del rossore. Se solo non mi venissero emicranie letalmente dolorose, io preferirei non metterle, le lenti a contatto. Mi piace quell'aria vaga - "vago" è un aggettivo ambiguamente carico di storia.
Mi sono sentita dello stesso colore che credo abbia assunto lo spirito di quella mia amica un po' cosmopolita quella volta che, stavamo parlando di fronte a un caffè e un pacchetto di pillole di nonsoché - se solo lo spirito avesse colore.
Ma non mi racconti mai niente.
Non c'è niente da raccontare.
Uomini, sesso?
Niente.
Ma come?
Boh, noia, disgusto.
Tu sbagli, ti condanni a questo grigiore perché non hai ambizione. Frequenti ancora quei ragazzini, quando dovresti cercarti dei trentenni.
Ma non è una questione di età, non credo...

Vaglielo a spiegare che i trentenni in Italia non esistono più. Tra l'altro. E che quasi tutte le escrescenze del corpo umano mi fanno schifo.

Cosa sono quelle pastiglie?
Acidgjlòskhgoruilsgj.
Ok, ne prendo un po'...
Male non fanno.
Ciao.
Ciao.







mercoledì 23 maggio 2012

Due o tre cose che so di me.

E quindi io sto lì - lì dove? Tra quattro pareti tinte di scuro qualche anno fa, quando i colori chiari mi impedivano di dormire, serrande abbassate, portatile che ronza in attesa di un senso da trovare a abcdefghilmnopqrstuvz - sto lì e pianifico il mio futuro, che al momento potrei descrivere con tutti gli aggettivi esistenti nella ricchissima e semanticamente sfumatissima lingua italiana, tranne quelli inerenti alla radice lux, lucis: dovrei scrivere una tesi, diciamo entro un anno da qui, sulle 150 pagine, su cosa? Dio? Il problema del male nella letteratura occidentale? La Melanconia nell'iconografia medievale? L'ultimo film di Lars Von Trier? La tendenza reificante nell'arte contemporanea? Il principio del Nirvana? Quale problema mi interessa davvero? Voglio provare a chiedere un dottorato su George Bataille e le sacré? Mi interessa davvero, così tanto? O può interessare a qualcuno? O non è già stato detto tutto? O è possibile pensare un fuori l'ontologia-metafisica surrettiziamente ontificante e facente capo a una malcelata onto-teologia? Ma conta davvero? O voglio scrivere un romanzo? O voglio diventare economicamente indipendete e vendere l'anima al diavolo? Prendere per esempio 10.000 euro al mese per comunicare al mondo cosa è cool e cosa no? O prendere tutti quei soldi e nel frattempo scrivere un romanzo che non sia l'ennesima esplosione mancata ma la rivelazione degli ultimi 10 anni? Ho le capacità per farlo? Perché solo a questa condizione mi metterei davvero su un altare di pubblico ludibrio a spillarmi il sangue dalle vene, davanti a tutti, per quello che verrebbe recepito come puro intrattenimento. Ma ho davvero la possibilità di scegliere? Nel senso: la capacità, il talento, il genio, l'ambizione? Non voglio forse solo rimanermene sdraiata sul divano ad ascoltare la corrente che scorre nei muri? Non è forse quello il ronzio incessante dell'essere? Anche se io odio l'Essere, cosa altro può essere che ronza così indefessamente? Forse che cambiare il nome di quel quella-cosa-che-ronza lo renderebbe meno inquietante? Nel senso, se lo chiamassi ABCDEF mi farebbe meno schifo che chiamarlo "Essere"? Non è forse quella famosa Sindrome di Davide di cui mi si accusa? Tutte rivoluzioni che esplodono a vuoto, alla fine non cambia niente. Quindi io sto lì e penso, e dopo sto lì e penso, mi perdo tutto. Non più genialità, non più funzionalità, solo sregolatezza blandamente regolata che si incunea a vuoto in un abisso di inettitudine.
Sto lì e penso, e il mio cellulare smette a poco a poco di funzionare. Perché non ho chiuso la borsa, e ci è entrata l'acqua, ora questo insieme di circuiti elettrici che mi consente di comunicare con il resto del mondo piano piano mi abbandona. Penso, Vabbè, ma in realtà non sto prendendo seriamente atto della situazione, non valuto le gravi conseguenze gravide di oscurità che l'evento con se porta e lascio perdere mentre fumo una sigaretta aspettando l'autobus pieno di puzza di cadavere. Il tasto destro non funziona, non posso inviare messaggi, poco male.
E la mattina squilla, quel telefono di merda aggeggio diabolico partorito direttamente da Satana in persona, squilla silenziosamente, cioè vibra, perché odio le suonerie e quindi evito di usarle.
E' la responsabile dei turni della biblioteca, appena vedo il numero capisco: sono una cogliona di merda.
Dove sei?
A casa.
Ma vieni?
Appena posso, vengo.
Ma lo sapevi che avevi una sostituzione?
Sì, ma pensavo fosse Mercoledì.
Ma se ti hanno pure mandato un messaggio.
Ma non l'ho letto.
Ma Santi Numi, santissimi, ma fare una telefonata?
Perché poi dovrei prendermela con gli altri se io non so più dove ho la testa? Se penso a Herzog di Saul Bellow e alla Filosofia dell'Arte di Schelling fino al punto che non sono più in grado di vivere, è forse colpa mia?
E di chi?
Mia, lo so.
Il fatto è che ricordavo fosse Mercoledì perché, quando avevo preso impegno per quella sostituzione, oltre ad aver condotto la conversazione come se si trattasse di un banale "Oh, allora poi ce lo prendiamo quel caffè, eh" che tutti sappiamo non si prenderà mai, mentre dicevo "Non c'è problema!" - con l'entusiasmo proprio di chi non sa davvero cosa sta dicendo, né perché - avevo pensato, Allora sì, io arrivo, faccio due ore di turno, poi pausa di un'ora e altre due ore, ce la posso fare. E secondo il mio schema mentale questo vago ricordo nebuloso corrispondeva alla tabella di marcia del Mercoledì, io Martedì non lo avevo proprio considerato, per niente!
Tanto va sempre così: appena non consideri una cosa, quella subito tac ti frega. Pugnalate alla schiena, è così che va il mondo.
Allora poi arrivo con due ore di ritardo ma copro un'ora. Autodafé pubblico: "Mea culpa, mio Signore, ma tu perché mi hai abbandonato?"
Poi leggo Platone per un'ora; mi rimetto al lavoro, scambio tessere, dono sorrisi e ciao ciao.
Torno a casa, vorrei uscire ma non ce la faccio. Però poi vado a dormire alle due, anche se so che dovrò alzarmi relativamente presto l'indomani per via del turno eccetera.
Appena poso la testa sul cuscino mi rendo conto che, a causa del tasto rotto, non posso più cancellare messaggi, e la memoria è piena, conseguentemente non posso neanche ricerverne, quindi a breve mi ritroverò senza amici. Io posso sopportare tutto questo, ma quando mi rendo conto che anche l'altro tasto, l'unico che mi garantisse un minimo di funzionalità, ha deciso di andare a puttane, e quindi non posso impostare nemmeno la sveglia, la disperazione comincia a mordermi nel profondo, i tarli a impossessarsi della mia mente; tutto il mio bagaglio di psicologia freudiana non riesce a tenermi lontana da una possente galoppante insonnia. Mi alzo, scrivo un bigliettino a mia madre: "cellulare rotto, non posso impostare la sveglia. prima di andare via chiamami".
Mi addormento in preda a sogni esagitati e completamente insensati e pieni di vagine (boh?).
Alle 7.30 mia madre mi sveglia, e io penso: Cazzo vuoi brutta puttana. Mi alzo e le frego il cellulare, con un certo senso di trionfo: imposto la sveglia e mi rimetto a dormire.
Altre vagine, poi lo squillo del telefono mi sveglia e mia madre si incazza perché sono una tipa troppo furba, mi sembra evidente, eccheccazzo metti che mi serviva il cellulare a me? Ma se non lo sai neanche usare. E mi rimetto a dormire in quel modo esagitato che ormai è abitudine, levo la sveglia inconsapevolmente. Il mio sogno mi ricorda che devo andare in biblioteca, guardo l'orologio del cellulare: le 10:05, sono ancora in tempissimo! Sono fuori casa in mezz'ora, in tempissimo! Neanche l'ATAC potrà fermarmi!
Io posseggo un temperamento ottimista, è questa la verità: un'amara verità. E la presa di coscienza ha sempre la forma dello sberleffo. Questa volta me la comunica la maledetta palina elettronica, alla mia fermata, a quei cento metri che innocui ormai mi separerebbero dal mio turno lavorativo, dai miei 30 euro guadagnati con onestà e olio di gomito; essa mi dice: 12:09.
E allora capisco. Nonostante il mio talento nel perdermi le ore per strada, questa volta le cose sono andate in maniera impersonalmene e quindi più fatalmente perversa: MIA MADRE - lo capisco solo ora - NON HA AGGIORNATO L'OROLOGIO ALL'ORA SOLARE.
Corro, trafelata.
I miei colleghi mi guardano con aria imbarazzata. Una di loro mi dice che non mi devo preoccupare perché mi hanno sostituito, ma anche ieri hai fatto tardi ma non lo sapevi che dovevi prenderti le mie ore?
Il suo tono è neutro, neutro come il tono di una persona che non ti sta assolutamente giudicando può essere. Eppure non posso fare a meno di leggere in quella semplice paratassi uno sciorinamento delle mie colpe, e poi lo so che tutti giudichiamo tutti, e tu mi stai giudicando e io non ho alcun modo per espiare le mie colpe e ora è tutto il pomeriggio che leggo Saul Bellow cercando una giustificazione alla mia impossibilità nel compiere quelle azioni che per tutti gli altri non costituiscono il bencheminimoproblema, ma non la trovo...
Insomma, è andato tutto a puttane?
Già.
Tranquilla, sono tutti molto comprensivi.
Io no.



mercoledì 25 aprile 2012

Saper stare al mondo, o no.

Passo una notevole percentuale delle mie giornate a lambiccarmi il cervello. Non è un'attività che trovo sgradevole, nonostante la maggior parte dei progetti che metto a punto finiscano quasi immediatamente nel dimenticatoio e le questioni che analizzo siano per lo più inutili (ad esempio: il problema delle periferie-dormitorio, il suicidio di Guy Debord, l'ossessione dell'uscita dalla metafisica nella filosofia degli anni '50, il ruolo del sacro nella cultura reificante occidentale, nuovi metodi per mettere l'eye-liner in cinque minuti senza sbavature, ecc.). 
In sintesi, ho un talento particolarmente sviluppato nel lasciarmi scivolare gli istanti tra le dita come se fossero Smarties, così mi ritrovo a notte fonda seduta su una sedia che straborda di peso inutile e ipertrofizzato con un vago senso di colpa che cercare di eliminare non rappresenta più nemmeno un ideale regolativo o un sogno utopico. E' così e basta, ci metto una croce sopra su questo-è-quello-che-sono, e alla fine mi va bene così perché, come dicevo, non è un esercizio che mi risulta particolarmente sgradevole, anche se in realtà non è affatto un esercizio ma il suo esatto opposto (abbiamo già imparato che spesso "la presenza passa per l'assenza" e che "il diverso è uno slittamento del medesimo" e altre inutili boiate compensative e giustificatorie di questo tipo). 
Ma di tanto in tanto capita che questa pratica masturbatoria intellettuale venga bruscamente sospesa in modo totalmente involontario, come se ci fossero dei buchi o delle cicatrici sulla superficie epidermica delle mie fantasie paranoiche, e questo mi da molto, molto, moltissimo fastidio. Quasi capisco la frustrazione del coito interrotto.
A un certo punto delle particelle di quotidiano si frappongono fra me e i mie pensieri, e sto usando questo linguaggio perché è una sensazione estremamente fisica, porta con sé tutta l'inevitabilità della fisiologia. 
Sono ricordi cancerosi, emergono dal retro della coscienza così, quando gli pare, mi tormentano, mi ossessionano, sono longevi e nitidi, anche a distanza di anni, apparentemente insignificanti, la loro essenza è il distillato della mia incapacità a vivere. Sono lì per ricordarmelo: puoi pensare quello che vuoi, puoi crederti qualsiasi cosa, ma questo è ciò che sei, non puoi scappare. Mi compaiono davanti, come le pubblicità in mezzo ai film, in bianco e nero, con i contorni sfumati, i pixel che convergono inquietantemente verso il centro, verso quei volti di mostro, quelle manifestazioni di verità, come se al posto degli occhi del ricordo avessi due lenti fish-eye (e io detesto il fish-eye, mi fa veramente schifo).
Continua, per esempio, a comparire sul mio sbilenco palco mentale l'occasione in cui ho incontrato per la prima volta l'infermiera che assistette mio nonno poco prima della sua morte, un'infermiera veramente logorroica. Entrata dalla porta, con il suo taglio di capelli alla cazzo, da vera persona pratica, terra-terra, che non bada ai fronzoli, anzi li odia pure un pochetto, si presenta, le stringo la mano. Parla con i miei parenti, io sullo sfondo annuisco; parla un sacco, più che altro di sé. Rimane tutto il pomeriggio a parlare, la sua voce è ormai una nenia nella mia testa, mi sembra di conoscerla da sempre. Sì, ci vedo distintamente bambine insieme nei campi della Romania, inseguire un baluginante e incerto raggio di sole mentre giochiamo a nascondino. E lei fa il giro di saluti, saluta tutti, arriva davanti a me, in un gesto inconsulto ma carico di conseguenze per il mio sfortunato ego, mi inchino per salutarla con i due bacetti che tutti usiamo tutti i giorni, anche se non ci va e anche se ecc. ecc. E lei mi guarda, mi fissa nelle pupille, come se fossi completamente pazza, è proprio sconcerto quello che vedo per un secondo nel suo sguardo, e poi, peggio, mi asseconda, e poi, ancora peggio, si allontana perplessa. 
Sono ormai due anni che continuo a rivivere questa scena, automaticamente e contro la mia volontà, in un perpetuo autodafé della mia evidente inadeguatezza.

E ieri, intorno alle 6 p.m., ho combinato un altro pasticcio che mi perseguiterà da qui al mio eterno riposo.
Come tutti i lettori attentissimi che si aggirano su queste pagine sanno, io "lavoro" in biblioteca. Non una biblioteca qualunque, ma una biblioteca di Filosofia: questo vuol dire frequentata per lo più da casi umani imbarazzanti. I primi tempi era tutto molto divertente, mi imbattevo in libri interessantissimi, mi segnavo le frasi più assurde; lentamente ma inesorabilmente tutto ha assunto le tinte fosche dell'incubo. I libri hanno preso a diventare stupidi e fastidiosi numeri su diverse mensole ubicate in luoghi difficili da raggiungere, le persone che mi parlano sono diventate mere voci grottesche che si frappongono tra me e la fine del paragrafo. E spesso sono voci maleducate. Spesso non sono neanche voci, spesso sono solo lanci di oggetti e sguardi intimidatori, mentre io penso "Ma che cazzo vuoi?", e ogni tanto lo dico pure. 
Quando anche il mio collega più spensierato, quello che si divertiva di più osservando i miei sbilenchi sbuffi di rabbia, ha cominciato ad inquietarsi sussurrandomi "Ma lo sai che ti sentono?" e ha assunto un'inequivocabile espressione stralunata al mio "Ovvio" di rimando, ho capito che era giunto il tempo di darsi una regolata. Di smetterla di prendere tutto sul personale, di tornare a divertirsi, di cogliere il buono nelle persone, di lasciare sorrisi a chi sorrisi non sa dare forse perché la vita è stata troppo crudele, ecc. 
E come in tutte le cose che faccio, ci sono riuscita, al meglio, in modo convinto, senza incertezze.
Ultimamente, quando sono dietro al bancone, incontro spesso questa ragazza evidentemente molto timida, espressione seria, occhiali, libri in mano. Io la saluto, lei mi saluta. Un giorno l'ho incontrata in giro per la facoltà, e mi ha fatto ciao con la mano, e io ho pensato "Magari è una persona normale, ha addirittura sorriso, magari non mi saluta solo per educazione".
Mai errore di valutazione fu più profondo, stupido, imbarazzante, grottesco, sbagliato del mio.
Ieri erano circa le 6 p.m., la biblioteca era in chiusura, lei era l'ultima ad andarsene. Mi da la tessera, le restituisco il documento - sorridendo!- lei lo prende, mi dice "Ciao", io - ZA ZA ZAN- le chiedo "Come stai?". 
Comestai. Quanto ci vuole a pronunciarlo? Due secondi, su per giù? Ecco.
Temporale di emozioni, in due secondi.
Mentre pronuncio la prima sillaba mi congratulo con me stessa, penso a tutti i progressi che ho compiuto in fatto di relazioni sociali, a come sto superando le mie paure, a come sto diventando più equilibrata, a come sto aprendo il mio orizzonte al mondo, al dato, a come io stia diventando un'accogliente casa dell'essere, a come la persona che ho di fronte a me, questo Altro che tanto mi spaventava e ripugnava, è forse un potenziale Proprio, una leggera differenza dell'Identico che mi può portare allo scintillio del Vero nell'Ente, perché questo Altro che è di fronte a me, qui, ora, hic et nunc, non è come l'Altro-Inferno di poco fa che, mentre parlava al telefono, mi ha lanciato la tessera, aspettando che io facessi il mio lavoro, senza un "se", senza un "ma", un grazie e un arrivederci, quell'Inferno che aveva scatenato in me apparentemente insopprimibili istinti omicidi...
Ma già per la fine del Comestai capisco che sono un'inguaribile cogliona, che è proprio questo il mio problema, che io sono un'illusa, che non sono una nichilista, sono un'ottimista delusa, che non sono un leone, né una iena, ma che indosso questo costume da macellaio perché sono un'agnello indifeso. 
Varie emozioni attraversano il suo volto, neanche troppo fugacemente. 
In prima istanza: sconvolgimento. Balbetta, balbetta! Riesce a tirare fuori un "Perché?"
Penso, Ma in che senso "perché", ma che cazzo di risposta è, brutta deficiente ti spacco la faccia.
Ma riesco a regolarmi, faccio la faccia triste&imbarazzata e dico "Così...", sperando si capisca che boh, scusa, ho sbagliato, non mi sembrava di essere invadente, visto che ci salutiamo tutti i giorni ho pensato di chiederti come stavi, sono una cretina, lo so, è proprio questo il mio problema, ora e per sempre, il mio problema è che ho capito le categorie kantiane a 16 anni, e ancora me le ricordo, e trovo ridicole quelle persone che mi chiedono 7 volumi della collana Kant Schriften come se stessero facendo qualcosa di veramente grave e fondamentale per l'umanità, perché sticazzi di leggere Kant in tedesco,  Kant è sempre Kant, l'Inferno sono gli altri e voi non state cercando la cura per il cancro né progettando uno space-shuttle, state solo andando in giro con dei libri sotto le ascelle sperando che vi facciano da scudo quando qualcuno, qualche stronzo, qualche stronzo imbecille come me, si lascia scappare una parola di troppo da una stupida feritoia auto-inflitta nella propria armatura senza macchia. Vaffanculo.


giovedì 23 febbraio 2012

Il demonio nei dettagli

Poniamo un uomo. Non un uomo qualunque, ma uno spinto da un animale desiderio di sé e dalla consapevolezza di questo fondo oscuro in lui. Poniamo che quell'unico uomo voglia convertirsi a se stesso – i deliri della volontà folle – trovarsi, per così dire, nel punto Omega del suo essere. Trovarsi lì, nell'equilibrio precario di una lacerazione che è il proprio io più autentico, diventarsi amici, dopo una psicotica oscillazione tra poli estremi. Il compito più difficile, perché, se tutta quella roba è rimasta nascosta tanto a lungo, probabilmente un valido motivo c'è. Il destino più idiota, perché scegliere di spegnersi per la fiamma più esposta? L'ingenuità ha un prezzo, ed è sempre il più alto.

Allora l'uomo si incammina, si dilapida, si spoglia, si priva. Crede nel progredire della sua potenza, si sente grande. Ma basta un movimento dell'altro, il più banale – per esempio, il modo in cui si sfoglia distrattamente un libro, una smorfia passeggera su un volto – per indicare l'impossibilità dell'opera: Lasciate ogni speranza, voi che entrate. Da questa infinita sequela di ciò-che-sei-oggi non uscirai mai. Non diventerai mai, tu. Sarai per sempre legato al guinzaglio di questo qui e ora, di questi circoli viziosi furibondi e frustranti. Inchiodato al legno di una quotidianità insufficiente, anche solo progettare di uscire fuori (fuori, poi, dove?), o, meglio, di cadere dentro (quel dentro in cui l'unica logica è la passione del paradosso, il buco nero del senso, il retro della medaglia), è l'ammissione del peccato più grande: la stupidità. Ma da certe stupidità non si può uscire, non finché ci si è sezionati talmente a fondo da aver perso le parti più importanti della propria carne (dita, labbra, gambe), non finché tutta la pelle intorno non sia stata rimossa per mostrare al mondo, alla lama del coltello, il fiore più immondo, questo palpitare di vene e nervi contratti.

A quel punto non si funziona più, ogni parola è un macigno. Ogni contatto, un'esplosione.

Il mondo sa che lo stai rifiutando e lui si immunizza, e rifiuta te.

Ma tu non puoi perdere, allora ti elimini.

E' così che un giorno ti addormenti pensando di esserci quasi, di aver quasi afferrato quello sfuggente enigma, ma ti svegli il giorno dopo e sei sempre il solito te, forato.


Allora prendi l'autobus, la mattina, che è in ritardo. Entri, quei corpi estranei e disgustosi ti si pigiano addosso. Grugniti al posto di parole, una massa informe in eucaristica condivisione di una solitudine collettiva si riversa nelle strade, vomitando già la giornata ancora da iniziarsi. E poi ci incazziamo perché qualcuno ci pesta il piede, ed è pure giusto.

Poi una signora anziana ti chiede se scendi, e ti irriti. La guardi in faccia con sgomento per replicare che sì, cazzo, scendo, e allora vedi: la sua maschera. E capisci che è tutto un danzare di maschere, di questi volti pitturati per sembrare vivi, ma pitturati con una stravagante imperizia positiva (ricercata? O è un tradimento del vero?), smorfie disegnate con il taglierino, occhi porcini rivoltati, espressioni di plastica. Dai loro nasi cola mucciolo, dalla loro bocca scende bava, i loro denti neri occhieggiano nel buco del teschio.

E sono proprio quelle maschere, quelle maschere che tu non lo sai, ma le porti anche tu, sempre, che ti tengono lontano da quel proposito folle. E l'unico modo per attuare quella pazzia, è essere effettivamente, fino in fondo, ciò che autenticamente sei: solo uno spreco.

Uno spreco è qualcosa di negativamente ulteriore un niente: il niente a certe condizioni può essere carino, uno spreco è solo merda (come le collane d'oro al collo della signora).

Ma se devi essere uno spreco, devi essere uno spreco magnifico, eclatante: se devi essere un'anomalia, devi essere un'abnormità; se devi essere un aborto, che tu sia un abominio.

E nessuno ha mai detto fosse facile, anzi. Se mi imponessi di sentire qualcosa, sarebbe il sospiro di Antigone che muore sola in una grotta. Perché è questo che sei: non un esploratore, non un innovatore, ma un Odisseo esausto che torna dalla sua Penelope, che si è cavata gli occhi con le unghie di corvo perché tessere era diventato troppo, fatalmente noioso.

Ma qualche consolazione, alla fine, la trovi. Una storia da raccontare, ad esempio, mentre chiudi gli occhi, appesantito dal vino, e la trovi. E sei contento: questa ferita aperta può ancora diventare qualcosa di meraviglioso. E poi ti svegli il giorno dopo e sei il solito coglione.